sabato 17 ottobre 2015

SARAGAT/ HUMANISME MARXISTE: LIBERTÀ E COSCIENZA DI CLASSE


Da “L'humanisme marxiste” (Marsiglia, Esil, 1936) - Parte III, capitolo 2°

La libertà è a tal punto essenziale per l'uomo che persino coloro che l'avversano sono costretti a conseguirla nel medesimo tempo in cui ne combattono la realtà. (Marx, “Dibattiti della Dieta renana”, 1841).


Gli individui isolati costituiscono una classe soltanto nella misura in cui essi debbono condurre una lotta comune contro una altra classe. Una classe oppressa è la condizione indispensabile di ogni società fondata sull'antagonismo delle classi. Perché una classe sia per eccellenza la classe dell'emancipazione, bisogna per contrasto che un'altra classe sia la classe della palese servitù. E' questo il caso della borghesia di fronte al proletariato. Il proletariato può e deve rendersi libero da solo: ma non potrà mai farlo senza sopprimere le condizioni della sua esistenza attuale. E queste condizioni esso le sopprimerà soltanto abolendo d'un colpo tutte le condizioni disumane di vita della società di oggi. I lavoratori “risentono in modo doloroso il divario tra l'essere e il pensiero, tra la coscienza e la vita. Essi sanno che la proprietà, il capitale, il denaro, il lavoro salariato, e così via, non sono affatto chimere ideologiche, ma prodotti molto reali, e concreti, della loro alienazione, e che bisogna sopprimerli in maniera reale e concreta, affinché l'uomo cessi di essere uomo solamente nel pensiero e nella coscienza, e lo diventi nella sua qualità di elemento della massa e di essere vivente (Marx, Engels, “La sacra famiglia”, 1844).

E' l'inesorabile forza delle cose, è la necessità che genera e determina tanto la solidarietà di una classe quanto la direzione dei suoi sforzi nella lotta sociale: “non si tratta di sapere ciò che il tale od il talaltro proletario, od anche tutto il proletariato, si pone provvisoriamente come scopo; si tratta di sapere ciò che esso è realmente e ciò che sarà costretto storicamente a fare in modo conforme alla sua natura.” (Ibidem) Ma per l'appunto la concezione dialettica di questa natura implica un atto di coscienza, e quindi l'esperienza di questa libertà totale, dove l'uomo ritrovi se stesso come scopo unico delle forze che egli sviluppa. Poiché, come diceva Hegel: “ Ciò che ci fa sentire la fame e la sete come una privazione od una costrizione, è l'impulso che ci spinge a liberarci di questa privazione e ci rende capaci di riuscirvi. Si prova il dolore, e provarlo è privilegio di una natura sensibile; lo si prova come una negazione all'interno del proprio 'io' e ci si sente oppressi da questo limite proprio perché sentire significa avere il sentimento del proprio 'io' che è totalità e che oltrepassa dunque tutti i limiti stabiliti”. (Hegel, “Scienza e logica”, prima parte.)

una classe sociale, così come un individuo, non potrebbe avere piena coscienza dell'oppressione che subisce, se nel fondo di questa coscienza non ci fosse la nozione (ed il bisogno irresistibile) della libertà. Questa libertà totale dell'uomo è la condizione preliminare della coscienza di classe del proletariato, e per questa ragione il fine ultimo della lotta di classe condotta dal proletariato oltrepassa in un certo senso i limiti della classe per identificarsi con la completa espansione dell'uomo in una società definitivamente egualitaria.

Tutta la difficoltà per l'uomo oppresso di oggi, per il lavoratore, che il capitalismo vuol far diventare “una semplice macchina che produce la ricchezza altrui, un essere sfinito fisicamente e incretinito spiritualmente” (Marx, “Salario, prezzo e profitto”, 1865), consiste nel concepire veramente la libertà come valore che oltrepassa i limiti di una determinata classe, e nel non svisare o ridurre la portata dell'azione emancipatrice. Lo scopo immediato, cioè “costituire il proletariato in classe, rovesciare lo stato borghese, far conquistare ai lavoratori il potere politico” può essere raggiunto solo se non si perde mai di vista che “alla società borghese, con le sue classi ed i suoi antagonismi di classe, dovrà essere sostituita una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti” (Marx, Engels, “Manifesto dei comunisti” , 1848).

La rivoluzione che compie il proletariato si distingue essenzialmente dalle rivoluzioni precedenti, in cui si spezzava la supremazia di una classe solo per permettere a nuovi strati sociali di stabilire il loro predominio sulle altre classi.
“Se il proletariato trionfa, ciò non significa assolutamente che sia diventato la forma assoluta della società, poiché trionfa soltanto nella misura in cui si sopprime contemporaneamente al suo contrario: la proprietà privata” (Marx, Engels, La sacra famiglia”, 1844). Poiché “la condizione di libertà della classe lavoratrice è l'abolizione di ogni classe” (Marx, “Miseria della filosofia”, 1847).
Che altro significa ciò, se non che il classismo rivoluzionario postula la volontà di distruggere le condizioni grazie a cui sono possibili le classi? Che altro significa ciò, se non che il proletariato lotta proprio per sopprimere le ragioni che rendono inevitabile e necessaria questa lotta?

L'incapacità degli pseudo-marxisti di comprendere il valore assoluto della libertà, per cui il proletariato combatte, porta con sé anche l'incapacità di riconoscere che la lotta di classe proletaria non è una lotta di classe come quelle che l'hanno preceduta.
Gli obiettivi che la storia ha posto dinanzi al proletariato sono immensi, in virtù del significato universale che fin dall'inizio è loro inerente: “con questa formazione si conclude la preistoria della società umana”. Se la borghesia ha realizzato le sue aspirazioni (nel 1830 in francia, nel 1832 in Inghilterra) accentuando il suo egoismo di classe e riducendo l'ideale “emancipazione dell'uomo”, alla difesa di interessi privati, il proletariato deve, invece, identificare sempre di più la coscienza di classe con la “totalità umana”, a mano a mano che “la storia cammina e la lotta si delinea più nettamente”. Alla borghesia, per emanciparsi, bastava solo diventare la classe dominante, rovesciando il suo opposto, il regime feudale. L'emancipazione del proletariato è soggetta a tutt'altra condizione. Non basta al proletariato ergersi a classe dominante, né rovesciare il suo contrario, la borghesia. Bisogna che crei per tutti gli uomini una sociatà umana.
Ogni ideale proletario deve innestarsi su di una realtà di classe, ma allo stesso tempo impregnarsi di una realtà che oltrepassa i limiti di ogni classe. Bisogna che in qualche modo il proletariato sappia “anticipare” in se stesso l'uomo libero di domani, l'uomo di una società, in cui “i produttori regoleranno razionalmente lo scambio materiale secondo natura e lo sottoporranno al loro controllo collettivo, invece di essere dominati da lui come da un potere cieco”.
Questa fusione della coscienza di classe sviluppata al suo più alto grado con la più assoluta e più universale cognizione dei “valori umani”, è il paradosso dello slancio rivoluzionario; è anche la pietra di inciampo per molti dottrinari della lotta di classe. L'antinomia può risolversi solamente con la visione esatta di una realtà umana, i cui rapporti di classe nella società attuale offrono soltanto l'immagine mutilata o “l'alienazione”. Il proletariato non deve abbassare la realtà umana a livello delle sue esigenze di classe, ma bisogna che allarghi le aspirazioni della sua classe fino a conglobarvi tutta la realtà umana. Questo umanismo integrale del proletariato, di cui l'idea di libertà è l'espressione cosciente, appare così come l'elemento essenziale e il fondamento della nostra coscienza di classe.
Proprio perché la libertà è il motivo dominante ed è la condizione indispensabile della coscienza di classe che agita il proletariato, Marx ha potuto considerare l'emancipazione politica come la forma più alta di emancipazione nel quadro attuale della società.

Fino a che il proletariato non è ancora così evoluto da costituirsi in classe, e le forze produttive non si sono ancora tanto sviluppate in seno alla società borghese da lasciare intravedere le condizioni materiali necessarie alla libertà del salariato, la lotta del “lavoro” contro la “proprietà” non può avere un carattere politico: gli oppressi non vedono che miseria nella miseria, senza attingere dalla coscienza di questa miseria una forza sovvertitrice che capovolgerà l'ordine sociale divenuto insopportabile. L'emancipazione politica segna dunque la tappa in cui la formazione di una vera coscienza di classe diventa possibile e determina l'azione organizzata del proletariato. Senza dubbio, i lavoratori salariati costituiscono già “materialmente” una classe nelle officine e nei campi, ma senza un ambiente politico che permetta agli sfruttati di abbracciare in una visione d'insieme e di sottoporre, per così dire, ad un “libero esame” la situazione in cui si trovano collettivamente, in rapporto alle altre classi ed alle istituzioni sociali. L'esistenza in quanto classe non si accompagna con una coscienza attiva, né, di conseguenza, con una capacità di sviluppo rigeneratore. Il proletariato non acquista questa capacità che sul terreno politico, e solo la democrazia gli dà accesso a tale terreno.

Ma la democrazia non è solo condizione preliminare della coscienza di classe; una connessione ben più profonda si rivela fra questi due fenomeni, non appena si esaminino gli effetticoncreti delle libertà politiche. Certo, la libertà che assicura la costituzione democratica – libertà di coscienza, di parola, di stampa, di riunione, di associazione, ecc. - è una libertà di un certo tipo comune e non la libertà morale e materiale che si incarna nell'individualità concreta e originale. Nella sua qualità di “libertà giuridica” essa implica necessariamente elementi di quantità e di generalità caratteristici nel campo del diritto. Tuttavia, precisamente nella salvaguardia di questa libertà quantitativa, la libertà materiale e qualitativa della singolarità concreta può espandersi nel modo più intenso: essa è sempre in potenza all'interno delle libertà giuridiche. Del resto, in regime democratico, non soltanto i diversi individui, ma raggruppamenti di qualità distinte si vedono conferire uguali franchigie. Questo metodo di organizzazione per raggruppamenti liberi, che moltiplica gli aspetti della democrazia annettendovi anche organismi non politici (sindacati, cooperative, associazioni culturali, ecc.), permette di introdurre certi elementi di singolarità individuale, di “umanità reale”, anche nella costituzione della libertà giuridica. Poiché la base suprema, il principio fondamentale della democrazia, è “la varietà nell'unità” e “l'unità nella varietà”. Ed è anche questo il principio di ogni umanismo.
Si dirà, per esempio, che la libertà di pensiero non è che una libertà politica o, peggio ancora, una “libertà borghese”? Ma, se la borghesia – al tempo in cui era una classe rivoluzionaria – l'ha inserita fra i “diritti dell'uomo”, significa che in effetti nessuna emancipazione umana è concepibile senza libertà di pensiero. Ed ora che la borghesia è la classe che si oppone alla liberazione dell'uomo, rinnega la libertà di pensiero, come del resto tutta la sostanza delle libertà democratiche.
Se oggi la libertà di stampa è una lusinga, per non dire una ignobile menzogna, è perché il gioco delle potenze economiche impedisce alla maggioranza del popolo, e in particolare alla classe operaia, di far uso di questo diritto, benché non sia formalmente abrogato. Per il proletariato, appena sarà vittorioso, non si tratta dunque di sopprimere la libertà di stampa, ma di sopprimere gli ostacoli che rendevano inoperante tale libertà. E sarà la stessa cosa per tutte le altre libertà garantite dalle istituzioni democratiche. Non dimentichiamo questo passo del “Manifesto dei Comunisti”: “Abbiamo già visto che l'ultima tappa della rivoluzione proletaria è la costituzione di del proletariato in classe dominante, la conquista delle democrazia”.
Nella libertà politica c'è dunque un contenuto umano che non solo non può essere abolito, ma che si tratta di portare al suo pieno sviluppo. Tutti i malintesi su tale questione derivano dal fatto che ci si compiace di confondere la libertà prigioniera con le catene che la riducono all'impotenza. Tutto il contenuto umano della democrazia politica è alterato da quel fatto politico che è la dominazione di una classe sulle altre. Ma questo contenuto, che noi chiameremo “autonomia dell'essere umano”, non è meno vero, e non può esser fatto scomparire entro i limiti di una classe sociale. Diciamo dunque che tutta l'umanità è deformata dalle classi che si ergono l'una contro l'altra, ma che queste classi, per la loro stessa esistenza, presuppongono una realtà umana. Oggi gli uomini possono pensare e agire soltanto da borghesi o da proletari, ma nel proletario come nel borghese c'è “l'uomo reale”, che si tratta di liberare dagli involucri di “classe”, che ora lo soffocano, lo corrompono, lo mutilano.
La democrazia è un avviamento (e come una “prefigurazione” in termini giuridici) di questa liberazione. La coscienza di classe spinge il proletariato oppresso proprio a questo atto liberatore. In tal senso, l'autonomia politica, nella misura del contenuto umano che implica, si identifica con gli scopi che il proletariato persegue nella lotta di classe. Egualmente, autonomia politica e coscienza di classe sono concetti solidali. Dunque è un errore grossolano criticare come borghese il contenuto umano di queste libertà democratiche, di cui la stessa borghesia riconosce il carattere non borghese, rinnegandole dopo la prima fase della sua rivoluzione. Ogni classe, nel corso della sua storia, risolve problemi rivoluzionari, e in questo senso ogni classe per un certo periodo svolge un ruolo emancipatore. L'ultimo atto del dramma è la lotta di classe in seno alla società attuale, che ha per premio l'instaurazione della libertà integrale, coronamento di tutto ciò che c'era di contenuto umano nelle precedenti lotte di classe.
Anche la borghesia ha svolto una parte, anzi un'importantissima parte rivoluzionaria. Se ora la rinnega, ciò avviene perché è in piena decadenza, perché ha perduto la propria giustificazione davanti alla storia e all'umanità. Il criticare una classe che decade non implica la critica del contenuto umano che caratterizzava le origini e la missione rivoluzionaria di questa classe. La morte della borghesia, trascinando con sé quella del vecchio mondo, deve salvarne ciò che esso aveva di vitale, e che potrà ora svilupparsi e dare i suoi frutti.
La borghesia rinnega l'universale umano per salvare il particolare “borghese”. Che cosa dimostra questo? Una classe il cui slancio rivoluzionario è infranto può tradire la libertà; quella che le succede, la classe operaia, deve prendere la fiaccola dalle mani vacillanti che la lasciano cadere e portarla più lontano e più in alto.
Non si tratta dunque per la classe operaia di completare la rovina della democrazia, implicita nella continuazione del regime borghese, ma di difenderla e di servirsene per assicurarle il suo pieno compimento.



venerdì 16 ottobre 2015

GIUSEPPE SARAGAT: IL MARXISMO DAL VOLTO UMANO



“L'humanisme marxiste”, pubblicato a Marsiglia nel 1936, in lingua francese, è un lungo saggio di filosofia politica nel quale Giuseppe Saragat, esule già da dieci anni, trascorsi prima in Austria e poi in Francia, raccoglie in un'opera organica le sue riflessioni sul marxismo.
Saragat aveva letto tutte le opere di Marx ed Engels e della critica marxista, in lingua originale, com'era sua abitudine con qualsiasi testo.
Già nell'estate del 1929 aveva pubblicato, sempre a Marsiglia in un'edizione destinata agli esiliati antifascisti, il saggio “Democrazia e marxismo” (su questo testo si sviluppò, in quello stesso anno, una fitta polemica epistolare con Carlo Rosselli, sempre improntata a grande amicizia e rispetto reciproco). Successivamente aveva affidato la sua originale lettura della dottrina marxista a numerosi articoli pubblicati sui vari giornali socialisti curati dagli esuli antifascisti, soprattutto a Parigi.
“L'humanisme marxiste” è un'esposizione sistematica della posizione saragattina sul pensiero filosofico e politico di Carlo Marx, cui egli attribuisce, come caratteristica di fondo, il significato umano dell'anelito di libertà insito nella natura umana. Anelito cui risponde la lotta proletaria.
Oltre che una lettura in chiave filosofica dell'attualità del pensiero di Marx, il testo propone una critica tanto profonda quanto spietata delle interpretazioni date al marxismo dai comunisti così come dalle componenti socialiste (di allora) dei riformisti come dei massimalisti.
E' uno scritto nel quale traspare in modo assai evidente la formazione austro-marxista maturata da Saragat durante l'esilio viennese. Quando fu pubblicato “L'humanisme marxiste” suscitò curiosità e vivo interesse in tutti i principali esponenti dei partiti socialisti di quell'epoca, caratterizzata dalla guerra civile spagnola che seguiva l'affermazione del fascismo in Italia e del nazismo in Germania e già faceva presagire l'esplosione (chiaramente prevista da Saragat) del secondo, grande, tragico conflitto mondiale.
Alla fine della guerra e dopo la fine del nazifascismo, Saragat non volle mai tradurre “L'humanisme marxiste” in lingua italiana, ritenendo questo testo troppo legato al particolare momento storico in cui era stato scritto ed ampiamente superato dagli eventi. Tuttavia la sua riproposizione, oggi, aiuta a comprendere la concezione, che Saragat non abbandonò mai, del rapporto indissolubile tra la lotta proletaria e l'affermazione della democrazia come presupposto di ogni libertà e della giustizia sociale. E' già quella visione che fu chiamata della “rivoluzione democratica”. E serve anche a spiegare come il pensiero politico di Giuseppe Saragat, riproposto a Palazzo Barberini, sia da inquadrare totalmente all'interno della tradizione marxista.
E già c'è tutto il Saragat che conosciamo in passi come questo che, se ci presentano una lettura “umanista” quanto meno originale dell'opera del maestro di Treviri (da Saragat collegata agli scritti filosofici piuttosto che a quelli economici), ci rivelano come e quanto “umanista” vero sia stato il padre della socialdemocrazia italiana : “La condizione di emancipazione della classe lavoratrice è la riconquista totale dell'uomo; il proletariato si propone una meta di carattere universale in ragione delle sue sofferenze universali; non rivendica alcun diritto particolare, perché non gli è stato fatto un torto particolare, ma un torto assoluto; non mette avanti alcun titolo storico, ma semplicemente il titolo umano...”.
Né mancano, in queste riflessioni riferite ad un tempo ormai lontano, spunti validi anche per il giorno d'oggi. Quando finalmente la lotta del proletariato, dice Saragat, riuscirà non a rovesciare ma ad eliminare le distinzioni di classe, allora “tutte le fonti della ricchezza collettiva sgorgheranno per permettere alla società di infrangere le costrizioni dell'ordine borghese e prendere per norma reale questa: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.


Antonello Longo

giovedì 8 ottobre 2015

LA DISAVVENTURA DI UN POVERO CRISTIANO


SILONE, SARAGAT E GLI INTELLETTUALI COMUNISTI...

di Antonello Longo

Si può essere ingenerosi nei confronti di una persona di cui si riconosce una superiorità?
Quando, nell'estate del 1978, giunse la notizia che Ignazio Silone si era spento, solo, nella clinica di Ginevra dove da un mese era ricoverato, Saragat scrisse che lo scrittore abruzzese “era un uomo superiore alle sue opere, quanto le opere letterarie che quelle politiche. E' strano questo, perché in generale un uomo va giudicato dalle sue opere, però c'era in lui qualcosa che sfuggiva alla sua azione politica e alla sua azione letteraria. C'era una superiorità in lui che non è stata mai espressa...”
La patente differenza di personalità e di carattere tra i due uomini può spiegare questo giudizio. Ma io credo che ci fosse qualcos'altro, ciò che potrei definire, prendendo in prestito le parole del poeta, una “difficile affinità di pensiero”.
Era stato Saragat, infatti, nel suo intervento in quel congresso del PSIUP dell'aprile 1946 che vide prevalere la mozione di Pertini e Silone, che affermava una linea di compromesso tra autonomisti e unionisti, a denunciare che nel comunismo italiano si insinuava “una concezione della democrazia puramente tattica, puramente strumentale, come di un mezzo di lotta che, a seconda delle circostanze, delle opportunità, o magari delle necessità, si può adottare o accantonare. Si diffonde questo equivoco anche nelle forme del linguaggio, per cui le parole assumono un significato contrario alla loro lettera; un'atmosfera di equivoco, di malessere, di astuzia, di inganno circonda le sfere degli iniziati che dirigono i partiti di classe.”... “Si prepara così l'accesso al potere di partiti che porteranno nello Stato quella stessa mentalità totalitaria e burocratica che ha presieduto alla loro organizzazione. Sotto la maschera della democrazia si prepara il totalitarismo.”
L'equivoco nelle forme del linguaggio, appunto. In questa chiave io leggo la paradossale vicenda politica, letteraria ed umana di Ignazio Silone (al quale Saragat, in fondo, non perdonò mai l'assenza a Palazzo Barberini, motivata con la scelta di fare il “pontiere”, convinto com'era che molti altri socialisti potevano essere recuperati alla causa autonomista).
Qualcuno ha detto che Silone veniva considerato troppo politico dai letterati e troppo letterato dai politici. A me, però, non sembra possibile distinguere l'uomo Silone dallo scrittore né lo scrittore dal politico, il socialista dal cristiano. Per questo motivo, penso, appariva con tanta evidenza la sua fatica, una sensazione quasi dolorosa, nel conciliare l'impegno politico in senso stretto (qualcosa, cioè, che ha necessariamente ha a che fare con il potere) con l'intima essenza del suo scrivere: affermare le ragioni della coscienza (qualcosa, cioè, che necessariamente ha a che fare con la morale).
Da quand'ero ragazzo ad oggi, ho letto e più volte riletto l'intera opera di Ignazio Silone, da “Fontamara” all'ultima, incompiuta, “Severina”. E mi trovo sempre meno d'accordo, anzi del tutto in disaccordo, col paludato giudizio di buona parte della critica letteraria italiana che ha visto e vede come un limite al valore letterario il suo aperto movente etico (ed ecco: “un moralista”!), la sua scelta di attribuire al racconto o al saggio, sempre, in maniera piana, quasi didascalica, la funzione di metafora del bisogno di giustizia sociale e di libertà, insopprimibile nel consorzio umano ed per ciascun individuo.
Il “caso” Silone fu il caso di uno scrittore considerato all'estero (fin dal primo apparire di “Fontamara” nel 1933) uno dei più grandi artisti della storia della letteratura italiana (sì, proprio così, al pari di Dante, Petrarca, Machiavelli, Leopardi, cui è stato accostato) e “relegato”, invece, in Italia (quando lo si conobbe, cioè soltanto dopo la liberazione dal nazifascismo), a scrittore “regionalista”, espressione di un neorealismo in tono minore o, al più, di un malriuscito verismo, incapace di modulare con un po' di brio la trama di un romanzo, di definire compiutamente i caratteri di un personaggio, di descrivere un paesaggio.
Un singolare fenomeno, sul quale sono scorsi fiumi d'inchiostro, dovuto al clima diffuso negli ambienti culturali e letterari nell'Italia del dopoguerra e degli anni successivi. Se e quando si riesca a comprendere un tale clima, nelle sue ragioni e nel modo di manifestasi, allora si può capire anche, più in generale, molta parte dell'evoluzione sociale e politica della comunità nazionale.
Non vorrei, per amor di sintesi, banalizzare. Ma quando si dice che il partito comunista ebbe un'influenza egemone sugli indirizzi della cultura italiana dal primo dopoguerra fino, almeno, allo scoppiare della “contestazione giovanile” del 1968, si afferma qualcosa di facile, concreto riscontro (il che va persino a lode dello stesso PCI, che fu il solo a comprendere fino in fondo l'importanza del ruolo “strategico” degli intellettuali nella società “borghese”).
La comunità letteraria italiana ha sempre avuto nel suo DNA, è cosa nota, l'amore per il quieto vivere, l'ossequio al potere, una certa spinta conformistica a seguire le mode del momento. Il fiorire, dopo il 25 aprile 1943 e la nascita della Repubblica, della (politica, della) narrativa e della poesia antifascista e democratica, è dovuto a (uomini politici,) letterati e scrittori che, giovani durante il ventennio fascista, erano cresciuti – come tutti, del resto – nei ranghi del regime mussoliniano, tra libri e moschetti, sabati fascisti e littoriali, vera incubatrice dell'intellettualità democratica del dopoguerra (“ai fascistissimi di ieri corrispondono i democraticissimi di oggi”, ebbe a dichiarare Bottai nel 1954. Per fare solo qualche esempio, furono “littori d'Italia”, cioè “la meglio gioventù” del regime che vinse “l'agone” e potè fregiarsi del distintivo d'oro con la “M” del duce, anche Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Pietro Ingrao, Mario Alicata, Antonello Trombadori, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Mario Ferrari Aggradi, Luigi Gui, Giuliano Vassalli, Mario Zagari, Luigi Preti, Lucio Lombardo Radice, Carlo Muscetta, Giorgio Bassani, Carlo Bo, Franco Fortini, Vittorio Zincone, Luigi Firpo, Giancarlo Vigorelli, Alberto Giovannini, Bruno Zevi, Gianni Granzotto, Michelangelo Antonioni, Alberto Lattuada, Luigi Comencini, Alberto Mondadori, Ugo Mursia, Edilio Rusconi, Paolo Sylos Labini. Ma l'elenco potrebbe continuare a lungo).
Lo sparuto, ignorato, oltraggiato gruppo di antifascisti incarcerati, relegati all'isola o costretti all'esilio era considerato, dall'opinione pubblica, alla stessa stregua dei “foreign fighters” di oggi, cioè di quei giovani “strambi” che oggi partono dal nostro Paese per andare a combattere “strane” guerre in parti remote del mondo.
Quando, alla fine, il fascismo mostrò a tutti il suo volto reale (cioè quando fu chiaro che la guerra non poteva esser vinta) e si capì che gli antifascisti del carcere e dell'esilio (giovani anch'essi, la maggior parte) non erano matti ma eroi, molti di quei giovani intellettuali ebbero la loro brava crisi di coscienza e parecchi entrarono nelle fila della Resistenza, magari in attesa di transitare da un regime all'altro.
Per questa generazione di intellettuali, “organici” e no, cui la partecipazione alla lotta partigiana aveva conferito credibilità e prestigio, l'idea rivoluzionaria e l'organizzazione comunista divennero punti di riferimento fondamentali, tanto per l'ispirazione artistica quanto per le loro attività di giornalisti, critici, “editors” e, quindi, di “opinion makers”.
Le Langhe di Pavese e di Fenoglio, la Firenze di Pratolini, l'Emilia di Bacchelli, la Lucania vista da Carlo Levi e così via, vengono, così, esaltate (giustamente, per carità) come scenari, naturali ed umani, che mettono in risalto il valore artistico universale della parola poetica, segni dell'alta visione neorealista che risalta nello scarno dialogo, nell'essenzialità espressionista della descrizione.
Il “povero” Silone, invece, trova solo un paio di aggettivi (per lo più “scarno” e “brullo”) per descrivere la sua Marsica, anzi, “quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui, e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell'altro”.
Ma la montagna che domina il paesaggio di Fontamara, “grigia, brulla, arida”, senza bosco, senza alberi, con poca terra da coltivare, “come la maggior parte dell'Appennino”, non è che lo sfondo sul quale scorre l'esistenza sofferente dei contadini marsicani. Pochi, forse nessun altro paesaggio mi è mai apparso più simbolico, meno naturalistico. Come non essere d'accordo con chi lo ha definito “paesaggio cristiano”, in linea col “mito cristiano” di Fontamara?
Racconta Silone: “andando da Gerusalemme a Gerico, e seguendo la strada che scendeva verso il Giordano e per un tratto lo segue, fui preso lentamente da una insolita emozione. Era la prima volta che percorrevo quella strada e m'inoltravo in quel paesaggio arido, senza un rigagnolo o l'ombra di un albero, ma avevo l'impressione sicura del già visto... Non ero solo e mi era impossibile di dire una parola. Finché mia moglie che si era accorta del mio turbamento, disse: 'ma questo è il paesaggio dei tuoi romanzi'. Allora, di colpo, mi divenne chiaro che quel paesaggio, che vedevo per la prima volta, in realtà lo portavo in me da anni, era il paesaggio dell'anima...” (da Ignazio Silone, “Un Silone inedito” in Alessandro Scurani, “Ignazio Silone”, Milano, 1969, pagg. 106-107).
Silone, poi, è stato stroncato perché nei suoi romanzi si ripete quasi sempre la stessa trama. In realtà, non senza malizia, allo scrittore marsicano fu contestata proprio la sua caratteristica sostanziale: la coerenza dei temi e dell'ispirazione. Silone diceva: “se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro (e che altro può metterci) la sua opera non può non costituire un unico libro”.
Così Ignazio Silone, che fu definito “il più grande scrittore vivente italiano” da Fulkner, fu celebrato da Tomas Mann e Graham Greene, da Camus e Wassermann, da Bertolt Brecht ed Heinrich Boll, per i “mostri sacri” della nostra critica letteraria, i Cecchi, i Sapegno, i Salinari e così via, non è che un dimesso bozzettista.
Si è detto che le critiche rivolte a Silone sul piano dello stile e della forma abbiano nascosto l'invidia degli scrittori italiani per l'eccezionale (e per loro inspiegabile) successo delle opere dell'abruzzese all'estero, in tutto il mondo. Io ritengo veri, piuttosto, due altri elementi.
In primo luogo l'inattualità del messaggio siloniano nell'Italia lacerata al tempo dell'insorgente “guerra fredda”. Silone affronta temi che solo dopo molti anni diverranno (in qualche modo) di interesse generale: la denuncia dei limiti e degli errori del comunismo stalinista e delle ideologie totalizzanti, la critica alla burocratizzazione di partito, il ruolo della coscienza nelle scelte politiche che pone limiti morali all'impegno politico, la religiosità che rifiuta l'impedimento del clericalismo, il rifiuto della “gabbia tecnologica”. Egli intuisce la crisi delle ideologie e vede la necessità di superare il marxismo come teoria scientifica, così come il delicato confine tra coscienza politica e sentimento religioso, ben prima di Roger Garaudy. Ed in letteratura, come in politica, si sa, aver avuto ragione con molto anticipo equivale ad avere torto.
In secondo luogo Silone, nell'eterna riscrittura del suo “romanzo politico”, poneva problemi scomodi per tutte le parti che, in Italia, si contendevano il campo e, soprattutto, per entrambe le anime della sinistra italiana. In quel tempo il partito comunista si era messo in primo piano per l'apporto determinante fornito alla Resistenza ed, anche per questo, una parte consistente dei socialisti credeva alla necessità dell'unità d'azione con i comunisti. Silone, ex dirigente comunista, che, ora, vagheggiava un “socialismo autonomo” e “umanitario”, costruttore della società fraterna e “conviviale”, sembrava loro un sognatore, un letterato, un “moralista. Tutto meno che un politico. Né si comprese che “Fontamara” era stato il primo (e forse è rimasto l'unico) romanzo che si possa definire autenticamente marxista della nostra storia letteraria.
Queste considerazioni possono spiegare, in qualche misura, l'isolamento di Silone e perché “il suo destino fu di essere esiliato”, come scrisse “Le Monde”.
In un convegno internazionale dedicato a Silone, il docente italo-americano Giuseppe Mazzotta ha espresso un'osservazione interessante: “In Italia – ha detto - si rischia di ridurre Silone a un santino degli abruzzesi, un provinciale. Invece lui era un uomo del mondo. Il suo messaggio è spirituale e contiene l'idea di un tipo di vita alternativo alla cultura occidentale tutta ossessionata dal potere. Lui è il grande critico di ogni forma di potere. Fosse vivo oggi, tuonerebbe contro la globalizzazione. A Yale avevo proposto lo studio di autori italiani come Moravia. Gli studenti si annoiavano. Moravia sì che era un provinciale. Quando ho fatto conoscere Silone si sono appassionati”
Il professor Arturo Colombo, che presiedette lo stesso convegno, disse che “l'amaro destino di Silone è quello dell'imputato, esattamente come lo sono la maggior parte dei suoi personaggi che risultano di continuo processati o arrestati, ricercati o sospettati, comunque sotto giudizio”.
E per i comunisti, a Mosca come in Italia, i “traditori”, coloro che denunciano l'abisso della dittatura e che, restando nell'ambito della sinistra, si battono per separare gli ideali socialisti dall'ideologia e dall'uso criminale del potere comunista, sono sotto processo vita natural durante, condannati, sempre e comunque, all'anatema, all'ignominia, alla diffamazione che punta a distruggere, quando non la vita stessa, l'immagine, la moralità, l'onorabilità della persona. E per ottenere questi risultati nei confronti degli intellettuali, non esitano a servirsi di quella intellettualità “organica” che ruota(va) loro attorno, permeando la (grande) parte inconsapevole e ignava della pubblica opinione.
“Ciò che mi colpì nei comunisti russi – raccontò Silone -, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l'assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz'altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile.”
Silone non fu un dirigente qualunque del partito comunista, era stato molte volte a Mosca, da solo ed assieme a Togliatti, aveva incontrato Lenin e Stalin. Resosi conto dell'abisso in cui era caduto il regime sovietico sotto la dittatura staliniana, aveva seguito l'unica via che gli dettava la coscienza: una “uscita di sicurezza” dal movimento comunista internazionale, perché “non c'è coerenza contro la coscienza”, anche quando trovare l'uscita comporta formidabili rischi ed hai la consapevolezza di rimanere per sempre nel mirino della denigrazione da parte degli antichi compagni.
Per motivare l'espulsione di Silone, decisa il 4 luglio 1931 dal comitato svizzero dell'Internazionale Comunista, d'intesa col PCI e, naturalmente, sotto la direzione di Mosca, vengono usate come “prove” le parole stesse portate dall'accusato a sua difesa: “il Pasquini (nome di battaglia di Silone)... ha dichiarato di essere un anormale politico, che il suo caso è un caso clinico, che egli si crede comunista perché legato strettamente ai contadini del suo paese, che il collegamento con questi contadini è l'unico legame vivo che lo leghi al partito, che non vi sono per lui altri legami all'infuori di questi, con altre categorie o gruppi o uomini.” Se ne deduce che egli non ha legami con il proletariato, col partito o con l'IC. “Lo Stato Operaio”, che pubblica queste motivazioni, taglia corto: “nelle fila del nostro partito non c'è posto... per gli intellettuali rammolliti come Pasquini”. In realtà, l'intellettuale rammollito, che ha già scritto “Fontamara”, ha rinunciato a difendersi (come avrebbe potuto, dalle accuse formali rivoltegli, costruite su abili falsi): ha già maturato il suo doloroso distacco dal partito comunista.
Da quel momento Ignazio Silone sarà dirigente socialista, con ruoli importanti, nel PSIUP, nel PSI, nel PSDI. Ma, come aveva notato Saragat, la sua potenzialità di uomo politico non fu mai espressa completamente. La crisi di coscienza, il trauma della separazione, resteranno, con la riscoperta dei valori originari del cristianesimo, la costante della sua vita, cioè della sua arte, quella sì espressa fino in fondo dai romanzi, soprattutto quelli del ciclo di Pietro Spina, fino a quell'avvincente, esemplare racconto di un'avventura umana nella politica che è “Uscita di sicurezza” (edita nel 1965) ed all'ultima opera pubblicata durante la vita dello scrittore, “L'avventura di un povero cristiano” (1968) che, personalmente, considero il suo più grande capolavoro.
Gli elogi, le riscoperte, le rivalutazioni, dopo la morte, vennero anche, come spesso succede, da fonti comuniste. Ma la tecnica, la mentalità comunista della demolizione dell'immagine morale dell'avversario, è fra gli atteggiamenti, gli istinti a volte inconsapevoli, più duri a morire, anche adesso che di comunisti in giro non se ne vedono più e che è iniziata tutta un'altra storia.
Dario Biocca, un ricercatore dell'università di Perugia, in collaborazione col collega Mauro Canali, alla fine degli anni Novanta comincia a pubblicare una serie di saggi sulla rivista “Nuova storia contemporanea” che riaprono il “caso Silone”, riportando gli esiti di dieci anni di affannosa ricerca sui “lati oscuri” della vita di Secondino Tranquilli (vero nome di Silone) negli anni Venti, quelli della clandestinità, della persecuzione poliziesca, della galera. Seguiranno i volumi “L'informatore: Silone, i comunisti e la polizia” (Luni, Milano, 2000) e “Silone, la doppia vita di un italiano” (Rizzoli, Milano, 2005).
Ecco che Silone, “post mortem” viene descritto da alcuni come un dirigente comunista che, in segreto, fa la spia ai fascisti o, da altri come doppiogiochista autorizzato dal PCI clandestino.
Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni, ha scritto, in collaborazione con Gianna Granati e Alfonso Isinelli, un libro bianco, “Processo a Silone, la disavventura di un povero cristiano”, (Piero Lacaita editore, Manduria, 2001) che replica punto su punto alle “scoperte” di Biocca e Canali, dimostrandone l'inesattezza, la strumentalità, l'uso capzioso di elementi che descrivono una realtà molto diversa da quella che i ricercatori vorrebbero dimostrare.
La vedova di Silone, Darina Laracy, disturbata e sconvolta, già ultraottantenne, dai “ricercatori”, disse a chi la intervistava: “uno: se lui passò veramente delle informazioni, bisogna riandare all'epoca in cui questo avvenne. Capire le ragioni umane del suo comportamento. Noi non possiamo giudicare. Numero due: potrebbero essere dei falsi. La polizia segreta potrebbe aver imitato la sua scrittura... Si è detto che io avrei aperto l' archivio personale di Silone allo storico Biocca. Non è vero. È Biocca che ha portato a me dei documenti per chiedermi cosa ne pensavo. Si è arrivati perfino a presentare sotto una luce ambigua il rapporto di mio marito con l' americano Allen Dulles, che fu in seguito capo della CIA. Invece è tutto chiaro. Silone lo conobbe in Svizzera nel ' 42, quando Allen Dulles era rappresentante speciale del presidente Roosevelt. Lo vide come l' uomo della provvidenza, colui che poteva fare del bene all'Italia.”
Luce D' Eramo, la scrittrice amica e biografa di Silone, poco prima di morire, raccontò a Tamburrano di un suo incontro con Umberto Terracini avvenuto nel maggio 1979: “mi disse che il PCI clandestino l'aveva incaricato di utilizzare le conoscenze che aveva nella polizia politica fingendosi anche informatore per sapere notizie riservate sui metodi usati contro gli antifascisti”.
Come osservò Darina Silone, i protagonisti sono tutti morti, ormai, e sarà difficile stabilire una verità indiscutibile. Eppure io credo che basterebbe conoscere e comprendere l'ambiente, la realtà in cui si svolgeva, in patria e fuori, la lotta clandestina al fascismo, con la polizia politica sempre alle calcagna; basterebbe conoscere e comprendere, nella sua profondità, il dramma umano della morte nel carcere fascista del fratello Romolo, del rapporto tra i due, paterno più che fraterno, per capire che la tristezza di Silone, il suo scrupolo di coscienza, il suo vivere come all'ombra di un rimorso, non era certo dovuto al rimorso per un'attività spionistica contro i suoi vecchi compagni comunisti.
Se può essere vero, ed è questo, con Tamburrano, anche il mio pensiero, che Silone, minacciato e ricattato dal capo dell'OVRA, Bocchini, poté fornire (col beneplacito del PCI) “generiche e inutili informative tra il '28 e il ' 30 solo per salvare la vita a suo fratello Romolo finito nelle carceri fasciste”, le parole più “vere” che io abbia sentito su questa incresciosa vicenda sono quelle di Indro Montanelli: “nemmeno se lui stesso me lo confermasse levandosi dalla tomba crederei al Silone spia fascista. L'uomo che si oppose a Stalin non può ridursi a diventare il confidente di un piccolo funzionario fascista”.












venerdì 18 settembre 2015

A 117 ANNI DALLA NASCITA. SARAGAT E L'IDEA DI LIBERTÀ

Ricorrerà domani l'anniversario di nascita del compagno Giuseppe Saragat, "Rassegna Saragattiana" non voleva e non poteva passare sotto silenzio questa data e siamo orgogliosi di farlo con un intervento originale del caro compagno Antonello Longo che bene ha conosciuto Saragat. 

Buon compleanno, compagno Saragat!



Il 19 settembre ricorre l'anniversario della nascita di Giuseppe Saragat (Torino 19/9/1898 – Roma 11/6/1988). Era il secondo di tre figli; il padre avvocato sardo di idee liberali, si era trasferito a Torino nel 1882. La madre, Ernestina, invece, era una piemontese “verace”.
Nella Torino operosa e austera del primo Novecento, Giuseppe condusse un'infanzia serena e compì gli studi di ragioneria e di economia e commercio fino al momento di partire volontario per la guerra, nel giugno del 1916. Col grado di tenente d'artiglieria, partecipò alle battaglie sul Carso, sull'altipiano di Asiago e sulla Bainsizza, e venne insignito della croce di guerra.
Tornato alla vita civile nel 1920, conseguita la laurea, venne assunto, prima, come contabile presso una ditta commerciale e poi dalla Banca Commerciale Italiana.
Fin dagli anni dell'infanzia fu unito da un'intensa, fraterna amicizia con Piero Gobetti (più giovane di lui di un paio d'anni) che descriverà, malgrado una certa dissonanza di idee, come “il migliore della sua generazione, certamente il più colto”. E insieme a Gobetti maturò la sua adesione all'antifascismo.
Nell'autunno del 1922 si iscrisse al PSU (Partito Socialista Unitario, segretario Giacomo Matteotti, formato dal gruppo riformista espulso in blocco dal PSI dopo la scissione comunista del 1921), nell'appena costituita sezione di Torino. Ricorderà Fernando Santi: “A Torino, nel Partito, c'era Saragat, funzionario della Banca Commerciale, era venuto al Partito mentre molti se ne andavano, parlava e scriveva bene e leggeva molti libri che noi non leggevamo.” Infatti il ventiquattrenne Saragat, pur non avendo svolto, fino alla marcia mussoliniana su Roma, politica attiva, aveva già letto Hegel, Kant, tutta la filosofia tedesca e molto altro.
In conseguenza della sua adesione al socialismo riformista, alla lotta per la “questione sociale”, contro “la miseria dell'industrializzazione” nella Torino di quegli anni, Saragat entrò, inesorabilmente, nel mirino della polizia fascista: il primo arresto è del febbraio 1923, seguito da pedinamenti, perquisizioni e da un nuovo arresto nel giugno del 1924 (condividerà la cella con lo stesso Fernando Santi).
Attivo collaboratore della stampa socialista, egli approfondì in quegli anni il suo pensiero sul rapporto tra marxismo e democrazia e sulla necessità di un rapporto dialettico tra socialismo e liberalismo. E si impone all'attenzione generale nell'unico congresso nazionale tenuto dal PSU, a Roma nel marzo 1925, nei giorni dell'Aventino (l'anno precedente, 1924, si erano tenute, il 6 aprile, le elezioni con la “legge Acerbo”, che avevano portato il listone Mussolini al 60%; il 30 maggio, Giacomo Matteotti aveva pronunciato in Parlamento il celebre discorso di denuncia dei brogli elettorali; il 10 giugno, il segretario del PSU era stato rapito e ucciso dai fascisti).
Il partito, dice Saragat dalla tribuna congressuale, ha prima di tutto il compito “di determinare la formazione dello spirito liberale che in Italia finora è mancato. In Italia le caratteristiche fondamentali della psicologia politica ondeggiano tra la assenza del senso statale e la assenza del senso di libertà... bisogna essere liberali perché la libertà è la premessa necessaria per un qualsiasi sviluppo della vita politica italiana...” Turati e Treves, ormai vecchi tutti e due, lo ammirano e lo abbracciano: “ci hai portato la gioventù!”.
Ma nell'autunno di quello stesso 1925 la svolta del regime era già compiuta, ogni libertà soffocata. Il PSU venne sciolto dal governo, il movimento socialista si affidò allora ad un triunvirato composto da Treves, Saragat e Carlo Rosselli, che nel novembre farà rinascere il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani). (Conservo un ricordo personale: dopo essere stato eletto segretario nazionale della federazione giovanile del PSDI, fui presentato a Saragat. Questi si mostrò sconcertato: “ma quanti anni hai?” chiese, 27, risposi. “E non ti vergogni? Io, alla tua età, ero il segretario del partito, non della giovanile!”. Ma quando, in seguito, gli chiesi di ricevere una delegazione dei nostri giovani, ci aprì più volte le porte della sua casa, e ci inondò di insegnamenti che hanno segnato per sempre le nostre vite. Così era fatto l'uomo Saragat).
Avrà appena il tempo di sposarsi, nel '46, con la sarta Giuseppina Bollani, compagna discreta ed eroica che lo accompagnerà fino al 1962, e di trasferirsi a Milano, nell'ufficio studi della BCI, continuando a prodigarsi per l'unificazione dei due tronconi (riformista e massimalista) del socialismo italiano. Ma, subito, dovrà fuggire, come tanti altri antifascisti, all'estero.
Passò il confine con la Svizzera, sorreggendo l'anziano Claudio Treves nella corsa a perdifiato tra i boschi, nella notte tra 19 e il 20 novembre del 1926. Si stabilì prima (poiché parlava perfettamente il tedesco) a Vienna, quindi, incalzato dagli eventi, fuggì ancora, a Parigi e poi nel sud della Francia.
Dopo diciassette, duri anni di esilio, fatti di paura, di stenti, di strenuo, rischiosissimo impegno politico nel fronte antifascista, Saragat, lasciata in Francia la famiglia, tentò di rientrare in Italia il 26 luglio del 1943 (il fascismo era caduto però la situazione era ancora instabile) ma venne arrestato dalle guardie di frontiera a Bardonecchia, in Val di Susa, e rinchiuso nel carcere delle Nuove di Torino. Vi rimase una ventina di giorni, poi, grazie all'intervento del suo grande amico Bruno Buozzi presso lo stesso Badoglio, viene liberato e potè riprendere il contatto con i vecchi compagni e iniziare a lavorare alla riorganizzazione del partito in quella situazione di marasma e di incertezza generale.
Nell'agosto del 1943 nacque il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), frutto dell'unione tra tutte le anime del movimento socialista, Saragat fu chiamato a far parte della direzione. Il 28 settembre di quello stesso anno firmò, assieme a Nenni e Pertini e, per il PCI, Amendola e Scoccimarro, un nuovo patto (dopo quello stabilito negli anni dell'esilio) di unità d'azione tra i due partiti. Continuava, sotto l'occupazione nazista, la stampa clandestina dell'Avanti! (direttore Nenni, condirettore Saragat). I rischi erano enormi.
Il 18 ottobre 1943 Saragat, con Pertini ed altri cinque dirigenti socialisti, venne nuovamente arrestato e rinchiuso a Regina Coeli. Consegnato alle SS, si ritrovò nel terribile terzo braccio, dal quale, come racconterà lo stesso Saragat, “si usciva in un modo solo: per andare di fronte al plotone di esecuzione. Qualche volta si poteva uscire già morti per le percosse subite dagli aguzzini durante gli interrogatori.”
Passato il Natale del '43, dopo lo sbarco delle truppe americane sul litorale laziale (22 gennaio 1944), si creò una situazione di confusione di cui Nenni, Giuliano Vassalli, Massimo Severo Giannini, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, riuniti clandestinamente nella casa del medico socialista Alfredo Monaco, che prestava servizio a Regina Coeli, decisero di approfittare per tentare la liberazione dei dirigenti socialisti imprigionati. Fu elaborato un piano di incredibile audacia, portato poi a compimento dalla staffetta partigiana Marcella Monaco e dal giovane avvocato Filippo Lupis, che entrarono a Regina Coeli consegnando un falso ordine di scarcerazione.
L'evasione ebbe un effetto clamoroso. “Ieri pomeriggio – annunciò Radio Londra il 25 gennaio – una patriota italiana ha fatto fuggire dal carcere Pertini e Saragat, i due massimi dirigenti del partito socialista italiano e capi della Resistenza italiana.” I tedeschi scoprirono così la beffa che avevano subito e la reale importanza del ruolo dei fuggitivi nelle fila socialiste.
Dopo essersi nascosto in diverse case private, Saragat trovò rifugio in Vaticano, dove erano già Nenni, De Gasperi, Ivanoe Bonomi e tanti altri.
Nelle settimane che seguirono continuò la lotta clandestina, Togliatti sbarcò in Italia e proclamò la “svolta di Salerno” (politica di unità nazionale anche con i badogliani), caddero, assassinati dai nazifascisti, Eugenio Colorni e Bruno Buozzi.
Roma “città aperta” (dal titolo del celebre film di Roberto Rossellini) fu liberata il 5 giugno del '44. L'Italia si trovò divisa in due, nel Nord rimanevano in vita la Repubblica di Salò, fantoccio per coprire l'occupazione nazista e la guerra partigiana, che la combatteva. Nel resto del Paese il Re nominò il nuovo governo Bonomi sostenuto da DC, PSIUP, PCI, PDL (democrazia del lavoro), PdA (azionisti) e PLI, che resterà in carica per il secondo semestre del '44. Entrarono a farne parte, tutti come ministri senza portafoglio, Saragat, De Gasperi, Togliatti, Meuccio Ruini e Benedetto Croce.
Ricorda Italo De Feo (nel suo libro “Tre anni con Togliatti”, del quale a quel tempo era segretario e stretto collaboratore): “In quei giorni feci la conoscenza di Saragat. Egli era arrivato da Roma (a Salerno, dove il governo Bonomi era sato costretto a spostarsi in tutta fretta il 18 giugno, potendo tornare a riunirsi a Roma soltanto il 15 luglio) recando con sé il bagaglio di una valigetta con qualche indumento e alcuni libri. Aveva un abito grigio e portava il basco: alto, magro, appariva distinto anche nella tenuta estiva. Passò all'Ufficio stampa per informarsi su quel che accadeva. Mi disse che la sera precedente era stato ospite in casa di compagni ove gli avevano offerto un pranzo sostanzioso, del quale aveva apprezzato la quantità dopo le ristrettezze di Roma. Ma per la notte aveva avuto un alloggio disastroso. Piuttosto che tornare a subire quel tormento avrebbe preferito trascorrere la notte su di una panchina dei giardini pubblici: tanto s'era d'estate e non v'era preoccupazione di sentire freddo...” Il che la dice lunga su come si viveva in quei tempi, ed anche sulla personalità di Saragat. (De Feo ruppe, nel '47, col PCI e divenne poi amico, consigliere e biografo dello stesso Saragat).
Il governo successivo, sempre presieduto da Bonomi, fu nominato il 12 dicembre 1944. Era sostenuto soltanto dal PCI, dalla DC, dal PLI e dal PDL. Nenni e Saragat furono concordi nel portare il PSIUP all'opposizione, con lo slogan “tutto il potere ai CLN”. Togliatti rilanciò prospettando l'unità di socialisti e comunisti nel partito unico della sinistra. Da quel momento cominciò a covare il dissenso tra Saragat (strenuo difensore dell'autonomia socialista) e Nenni (tentato dall'unità d'azione con i comunisti).
Il 15 marzo 1945 Saragat venne nominato ambasciatore italiano a Parigi. Il 21 aprile, a pochi giorni dalla liberazione, egli tornò da vincitore in Francia, dove aveva vissuto da esule, con Giuseppina e i due bambini piccoli, una vita di privazioni e di persecuzione poliziesca. Il che non gli impedì di partecipare alle trattative tra i partiti del CLN che portarono alla nascita (19 giugno) del governo Parri.
La prima assemblea nazionale del PSIUP dopo la Liberazione, alla fine di luglio del '45, presenti 700 delegati, vide delinearsi chiaramente le differenze di linea politica tra Saragat e Nenni. Nei giorni dall'11 al 16 aprile 1946 si tenne a Firenze il 24° congresso nazionale del PSIUP, che si concluse con un compromesso di facciata tra le due posizioni. E' in quella sede che Giuseppe Saragat , il 13 aprile, pronunciò un discorso memorabile, che gli storici considerano, prima e più di quello svolto a Palazzo Barberini nel gennaio del '47, il vero manifesto ideologico della socialdemocrazia italiana del secondo dopoguerra.
In opposizione ad una concezione “grossolana” del marxismo, Saragat disse, tra gli applausi, che “Marx scorge come obiettivo della lotta un comunismo che sopprime ogni alienazione dell'uomo, ogni impoverimento della sua vita materiale e morale, e fa dell'uomo una creatura veramente umana” Qui cita direttamente Marx: “questo comunismo, in quanto naturalismo compiuto, è l'umanismo, e in quanto umanismo compiuto, naturalismo. E' la vera soluzione dell'antagonismo tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e l'uomo, la vera soluzione della lotta tra l'origine e l'essere, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie. Non è che l'enigma risolto della storia.”... “Per Marx sempre la nozione fondamentale è la liberazione totale dell'uomo. Non si tratta, beninteso, dell'idea di libertà, ma della effettiva e pratica libertà degli uomini.”... “Noi sappiamo che, lottando contro venti e maree per la difesa di un costume di vita democratico, combattiamo per la vita stessa degli uomini.”
L'umanesimo socialista e la “rivoluzione democratica” sono il portato della peculiare lettura saragattiana del marxismo, che animerà fino alla fine della sua vita la visione del socialismo e della democrazia dello statista torinese.
Gli sviluppi successivi sono molto più conosciuti. Al congresso di Firenze seguirono la nascita della Repubblica, l'elezione dell'Assemblea Costituente di cui lo stesso Saragat fu eletto presidente, la scissione di Palazzo Barberini con la nascita del PSLI (poi PSDI), l'alleanza con De Gasperi e la partecipazione ai governi centristi, la grande stagione riformista del centro-sinistra di cui Saragat e Nenni saranno i grandi animatori.
E poi l'elezione a Presidente della Repubblica, la tragica stagione degli anni di piombo, la nuova, fallimentare esperienza dell'unificazione socialista, il ritorno del leader, ormai vecchio e stanco, nella piccola casa socialdemocratica, fino alla morte che lo colse, a novant'anni, nella sua villetta piena di libri in Via della Camilluccia (la prima casa che egli abbia posseduto, e l'unico bene patrimoniale lasciato ai figli dopo una vita al servizio dello Stato e degli ideali del socialismo e della democrazia).
Oggi lo scenario internazionale ed il quadro politico, economico e sociale dell'Europa e dell'Italia sono profondamente cambiati. Nella lunga, complessa, drammatica vicenda politica ed umana di Giuseppe Saragat non si possono più trovare chiavi di lettura dell'attualità politica: quelle esperienze appartengono interamente alla storia.
Benedetto Croce diceva che “la storia non è giustiziera, ma giustificatrice”. Saragat non riuscì a costruire in Italia un'alternativa riformista alla Democrazia Cristiana portando la maggioranza della sinistra fuori dall'influenza comunista.
Oggi non esistono più né il PCI né l'Unione Sovietica, ma il campo della democrazia può trarre linfa vitale dalla conoscenza del suo pensiero, che conserva la capacità di fornire indicazioni utili a chi lavora per ricostruire, ridare senso e prospettiva ad una impegno politico a sinistra.
Egli sostenne l'esigenza di una grande forza autonoma del socialismo per rispondere alle istanze di giustizia che vengono dal popolo e, per raggiungere questo scopo, indicò la necessità di superare, andare oltre, la vecchia impostazione riformista di Filippo Turati e della sua generazione, cercando in una rilettura critica delle teorie marxiste le idee forza per ispirare e guidare l'azione politica. Il marxismo interpretato liberamente, movente culturale e non più, non mai, dogma.

Giuseppe Saragat desidero ricordarlo soprattutto perché fu un socialista “eretico”, cioè libero, che predicò un “umanismo integrale del proletariato, di cui l'idea di libertà è l'espressione cosciente, l'elemento integrale e il fondamento della sua coscienza di classe.” E non mi sembra che tale esigenza sia venuta meno nel mondo di oggi.

Antonello Longo

lunedì 6 luglio 2015

L'ESEMPIO DI QUEL CHE PUÒ FARE UN POPOLO LIBERO


1. L'affermazione del governo di Alexis Tsipras nel Referendum del 5 luglio sulle condizioni (possibili o impossibili) di un concordato con la UE sul prolungamento di sovvenzioni europee alla Grecia per affrontare le conseguenze del grave debito pubblico accumulato da quel Paese, oltre che determinare delicate conseguenze di carattere economico, sociale e geo-politico, mettono la sinistra europea di fronte alla necessità, ormai ineludibile, di aprire al proprio interno un dibattito del tutto nuovo, che può portare a decisioni di rilevanza storica.
Nell'ottica che ci appartiene, quella della sinistra socialista di ispirazione riformista e democratica (concetti di complessa definizione, che - nell'attuale stato di incertezza sull'ordine d'idee dei partiti legati, o più recentemente aggregati, alla tradizione della socialdemocrazia europea - possiamo collegare saldamente alla visione saragattiana dell'umanismo marxista) mi sovviene un'altra fase, ormai lontana e di altra caratura drammatica, della nostra storia. E ciò a proposito, soltanto, del compito e delle prospettive di una nuova, auspicabile, forte coalizione sociale europea.

2. Nell'aprile del 1946, un anno dopo la liberazione dell'Italia dal nazifascismo, il P.S.I.U.P. (nome che il PSI aveva assunto dall'agosto del '43, in seguito alla fusione col gruppo di Lelio Basso, Bonfantini e numerosi altri capi partigiani), si riunì a Firenze per celebrare il XXIV Congresso del partito alla vigilia del Referendum istituzionale che avrebbe trasformato il Regno d'Italia in una Repubblica.
Fu quello, storicamente, il momento della massima unità mai raggiunta dal movimento socialista in Italia, nel cui corpo, però, incubava già l'inestirpabile, inesorabile germe della divisione.
Per i socialisti italiani si trattava non solo di ratificare ciò che era scontato per tutti loro, cioè lo schieramento per la forma repubblicana (nel quale, in effetti, il socialismo, tutto intero, fa l'anima più determinata ed attiva) ma, soprattutto, di discutere (in estrema sintesi) sull'aggettivo che quel sostantivo, repubblica, avrebbe dovuto qualificare in caso di vittoria: popolare o democratica?
La questione riguardava il destino dell'Italia ma appariva, ed in tutto era, legata alla dimensione globale ed al futuro dei popoli europei in seguito alla distruzione ed ai massacri della seconda guerra mondiale.
A ben considerare non mancano analogie fra quel momento storico ed i giorni che viviamo oggigiorno, e purtroppo, seppure in dimensioni infinitamente più ridotte, non possiamo far salva nemmeno l'esistenza di una vera guerra sul suolo europeo.
In particolare inserisco questo raffronto col passato per “inquadrare” l'ampiezza e la profondità di una questione la cui importanza, oggi, sembra sfuggire a gran parte degli eredi della sinistra storica europea, disorientata da bolse accuse di conservatorismo: quella relativa alla necessità di costruire una sinistra legata più fortemente alla rappresentanza dei veri interessi popolari.

3. Sessantanove anni fa, il confronto tra socialisti (che venivano considerati) alla destra e alla sinistra del movimento, verteva su questo scelta: agire in unità d'azione con i comunisti per edificare uno stato socialista oppure collaborare alla costruzione di uno stato democratico in cui il socialismo avrebbe dovuto rappresentare “la forma più alta della democrazia politica, ossia di quel regime in cui non un partito unico, soverchiatore, ha il controllo dello Stato, ma una pluralità di partiti, concorrenti in libera gara, lottano con le armi civili della discussione e della propaganda per ottenere i suffragi del popolo”.
Le parole tra virgolette erano quelle “di destra”, pronunciate, nel congresso di Firenze, da Giuseppe Saragat, nel corso di un intervento/lezione che, in un tempo nuovo le cui straordinarie evenienze storiche hanno trasformato l'antica ala destra nella sinistra del secolo presente, dovrebbe appartenere alla formazione politica, morale, culturale (ma anche alla semplice istruzione) di chiunque voglia ancora definirsi militante socialista.

4. Desidero proporvi un passaggio che mi sembra cogliere, tra gli altri, le analogie cui ho accennato. Lasciando ai lettori della “Rassegna Saragattiana” la facoltà di “riusare”, se e come credono, il senso di queste parole del 13 aprile 1946 (o di cercarne altre, che di sicuro sapranno trovare) per una loro personale elaborazione dei problemi connessi (anche) alla crisi greca nella UE del 2015.
Sentite: la “scarsa coscienza della funzione del socialismo ha la sua radice profonda in una scarsa coscienza del valore della democrazia politica.”... A proposito dell'invasione tedesca della Francia, “la Francia era caduta dopo pochi giorni di lotta; la Francia era caduta perché la confluenza dell'azione della quinta colonna hitleriana con la passività di una parte del proletariato, … aveva paralizzato quel nobile paese. Dal momento che la Russia non era in guerra con Hitler, la guerra che Hitler conduceva contro le nazioni democratiche dell'Occidente era una guerra che, secondo alcuni, non interessava i proletari di queste nazioni.”...
“Non voglio discutere la portata teorica di questa tesi, che va contro tutti i criteri del socialismo democratico e marxista, per cui il proletariato ha il dovere e l'interesse, in regime di democrazia, anche nel quadro della società capitalistica, di difendere l'indipendenza della propria patria. Tesi, del resto, della quale i russi si sono ricordati quando il loro paese fu proditoriamente attaccato.
Un fatto però è certo, ed è che se il proletariato inglese avesse dato ascolto a questa ingannevole dottrina, l'Inghilterra avrebbe forse subito la sorte della Francia; ogni difesa nell'Occidente sarebbe crollata e la stessa Russia, forse, trovandosi sola alle prese con Hitler, sarebbe stata schiacciata. In altri termini, la salvezza del mondo, in quel momento decisivo della storia universale, fu dovuta all'inesistenza di un partito comunista in Inghilterra e alla presenza in quel paese del laburismo. Gloria eterna ai fratelli laburisti, che con il loro coraggio e con la loro saggezza, hanno dato al mondo l'esempio di quel che può fare un popolo libero.”


Antonello Longo

giovedì 18 giugno 2015

PALAZZO BARBERINI, UNA STORIA SOCIALISTA PER RIPARTIRE DAI NOSTRI IDEALI




Rassegna Saragattiana ha l’onore e il piacere di pubblicare un intervento ( e speriamo il primo di tanti ) del compagno Antonello Longo
Il brano riguarda  la scissione di palazzo Barberini. Interessanti e attuali le conclusioni a dispetto del fatto che  l’ articolo sia stato scritto qualche anno fa.
***

Giorno 11 gennaio, come ogni anno, i socialdemocratici si ritroveranno a palazzo Barberini per ricordare, nell'anniversario, la scissione del 1947.
63 anni fa, in una sala (inopinatamente non più fruibile) di quel maestoso palazzo della Roma rinascimentale, non è nata di certo la socialdemocrazia italiana, la cui storia ripercorre la continuità dell'anima riformista del socialismo italiano e la cui origine è da ricercare nelle dispute di fine ottocento, riflesso della Seconda Internazionale, intorno all'ampiezza delle basi del movimento operaio e della sua coscienza di classe.
Nella grande confusione spazio-temporale dei linguaggi e della terminologia applicati alla storia del pensiero socialista, l'accezione che ritengo più pertinente della parola “socialdemocrazia” è quella di una cultura riformista che, all'interno del movimento socialista di matrice marxista, si contrappone alla visione (non già rivoluzionaria bensì) totalitaria del socialismo.
I socialdemocratici fanno, giustamente, risalire all'11 gennaio del '47 l'inizio di una loro peculiare presenza ed esperienza politica nell'Italia repubblicana, che non merita di essere ignorata né liquidata con superficialità, perché contiene in sé tutto il bagaglio storico, politico e morale di quella cultura, interpretata prima del fascismo e nell'esilio da padri fondatori come Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Giuseppe Emanuele Modigliani, Camillo Prampolini, Alberto Simonini, Bruno Buozzi.
Nessuno degli elementi che caratterizzavano nel secondo dopoguerra lo scenario internazionale e la condizione sociopolitica dell'Italia sopravvive nel mondo di oggi. Secondo me, dunque, è vano cercare nell'evento scissionista di palazzo Barberini spunti di attualità politica.
Vale la pena, invece, di approfondire il profilo storico e sottolineare il valore ancora vivido della scelta ideale di Giuseppe Saragat, che assunse un rilievo maggiore dell'effettivo spazio occupato negli avvenimenti successivi e rispetto al non determinante 7% di voti conseguito il 18 aprile 1948 (livello di consenso, in ogni caso, mai più raggiunto dai socialdemocratici italiani nelle elezioni politiche nazionali).
I protagonisti della scissione, in quel particolare momento storico, gettarono sul piatto delle idee una visione politico/ideologica, quella saragattiana, che avrebbe potuto dare a tutta la sinistra italiana una fisionomia più moderna e una diversa consistenza se non fosse stata (poi tradita da una troppo lunga e scialba pratica quotidiana dei piccoli spazi di potere gestiti in subordine alla DC ed) isolata, preclusa, osteggiata e demolita dall'angusto e fazioso conformismo culturale di matrice comunista e di retaggio cattolico controriformista che, fin da allora, fu influente nel mediare il rapporto tra politica e pubblica opinione.
Di fronte, anzi dopo le dure repliche della storia non c'è più un intellettuale “di sinistra” capace di negare (e come potrebbe?) le ragioni di Saragat e dei suoi compagni di avventura. Ma, ecco il paradosso, il riconoscimento di queste stesse ragioni viene usato per giustificare la fuoriuscita dalla sinistra storica piuttosto che per ricucire lo strappo con lo sviluppo del movimento socialista nell'Europa libera della seconda metà del novecento, provocato dalla presenza del più grosso partito comunista dell'occidente e dalla particolare posizione dell'Italia nello scacchiere geopolitico della guerra fredda.
Se viviamo un tempo amaro è perché, mentre sono state archiviate come ferro vecchio tutte le componenti della sinistra storica (che pure ha sempre trattato con sufficienza i socialdemocratici scissionisti di palazzo Barberini) l'area progressista si assesta attorno a un riformismo debole, non sorretto da un progetto credibile e riconoscibile di società più libera e più giusta, annegato nella melassa giustizialista e falso-moralista. Il risultato è che le componenti più fertili e vivaci del ceto medio e della borghesia vengono lasciati nelle mani della cultura e della politica di centro-destra. Una condizione che rende la sinistra politica perdente sul piano elettorale malgrado la sostanziale preponderanza nel sistema mediatico e che ripropone in forma nuova il problema (che fu della prima repubblica) di sottrarre la forza di milioni di voti popolari da un reale processo di trasformazione democratica dello stato, delle autonomie, dell'economia, della società.
Chi dirà, chi deve spiegare agli italiani come e perché quindici anni di seconda repubblica hanno prodotto una democrazia virtuale ed incompiuta dove due conservatorismi uguali e contrapposti, uno di destra e l'altro che occupa l'area di centrosinistra, si contendono il campo guidati e manovrati da altrettanti gruppi di potere economico/mediatico?
La risposta a questa domanda comporta molte, problematiche difficoltà. Eppure in tale risposta sta il compito dei pochi, disorientati, socialdemocratici rimasti in politica, che non devono (né possono) più scendere sul terreno della politica “politicante” ma hanno l'arduo compito (e, in realtà, l'unica prospettiva, se vogliono rimanere se stessi) di salire sul terreno della cultura che sottende la politica.

Il riformismo di cui si parla oggi non è quello del socialismo democratico, che è stato e rimane sconosciuto in questo paese, con l'eccezione dei contenuti autonomisti e innovativi del PSI di Craxi, buttati subito via con l'acqua sporca. Prima di scrivere questa nota ho voluto rileggere le parole pronunciate dallo storico socialista Gaetano Arfè in occasione del 54° anniversario della scissione di palazzo Barberini, in un discorso teso, in modo forse un po' forzato, a dimostrare che l'attualità della scelta di Saragat consiste nel fatto che la questione dell'autonomia socialista, rivendicata allora nei confronti del comunismo stalinista, va riproposta (si era nel 2001) come autonomia dal berlusconismo, anche per recuperare alla sinistra l'elettorato socialista (del PSDI e del PSI).
I passi che io cercavo comunque erano questi:
interpretare la rivoluzione di Tangentopoli come rivolta di una società civile, presunta pulita contro la corruzione del mondo politico allontana e non avvicina la comprensione di quella storia. L'ipotesi che io consegno agli storici che mi seguiranno è che anche in questo episodio abbiano operato, come in tutta la vicenda politica italiana a partire dalla formazione del primo governo di centro-sinistra dei fattori occulti i quali, in questo caso, furono mossi dalla decisa volontà di limitare, fino ad annullarlo, il primato della politica nella gestione del potere, di ridurre il governo del paese, direbbe Marx, a comitato d'affari dei potentati economici nazionali e internazionali.
Il capitale finanziario, oggi come mai prima d'ora, nella sua tumultuosa e turbinosa corsa non può tollerare regole che non siano quelle sue proprie. Il parallelo sviluppo di ideologie volgarmente revisionistiche della storia, del diritto, della economia, il diffondersi delle pratiche referendarie e plebiscitarie, i criteri aziendalistici, anch'essi eretti a dottrina, coi quali avviene la selezione del personale di governo nazionale, regionale e municipale sono tutti indirizzati nella stessa direzione, mirano a dare il monopolio del potere a chi detiene il monopolio dei mezzi di comunicazione e di imbonimento.
...
La riscoperta e la rivalutazione del ricchissimo e ancora vitale patrimonio di esperienze etiche, dottrinali e politiche del filone centrale del socialismo italiano, passato alla storia come riformista, diventa perciò il problema politico principale della sinistra italiana d'oggi. E qui mi pare opportuna un'avvertenza. Il termine riformista è oggi talmente logorato dall'uso, dall'abuso e dal cattivo uso che ha perso ogni significato. Turati stesso quando la parola entrò nel gergo politico corrente tentò di respingerla: per lui esistevano due socialismi soli, quello di chi sapeva e quello di chi ignorava che cosa la parola socialismo significasse.
Riformista si proclama oggi ogni modesta e molesta compagnia di ventura messa insieme per partecipare alla lotteria delle elezioni. Riformista si proclama il residuato maggioritario, sfiduciato e sfiancato, di quello che fu il partito comunista, disposto a dichiarare, ignorando peraltro la dialetticità della storia, che il comunismo è incompatibile con la libertà, ma non a riconoscere che la causa della libertà, della giustizia, della pace dal lontano 1892 ha camminato al passo del partito socialista. Di questa storia Veltroni salva solo Carlo Rosselli, …ma l'operazione rivolta a collegarsi idealmente a lui, isolandone la figura, pur di ignorare Turati e Matteotti, Treves e Modigliani, Saragat e Nenni, è storiograficamente infondata, culturalmente sterile, politicamente inutile.”
Nella pagina di storia scritta a palazzo Barberini l'elemento che io trovo più adatto ad essere utilizzato come chiave d'apertura di una nuova stagione socialista, non solo in Italia, è proprio quello, essenziale nel '47 ma poi rimasto (anche e soprattutto da parte nostra) più negletto, dai più considerato superato e utopico (sebbene non utopistico): l'aspetto dottrinario.
Il nuovo partito nato a palazzo Barberini dall'ennesima scissione, a partire dal nome, PSLI, e dal simbolo, affermò la continuità con la storia del riformismo socialista italiano. Ma il giovane Giuseppe Saragat era andato oltre, nei suoi scritti dell'esilio, l'impostazione riformista della generazione turatiana, cercando un più lucido ancoraggio di sistema alle teorie marxiste, di cui una “critica illuminata” poteva eliminare le interpretazioni “più rozze”, e innovandole, sublimandole direi, alla luce della stessa logica dialettica hegeliana che le ispirò.
La rilettura “illuminata” di Marx, l'umanismo marxista, la rivoluzione democratica, il valore della libertà, l'alleanza tra operai e ceto medio in una nuova unità di classe, maturati dagli insegnamenti dei grandi socialisti europei, da Engels a Turati, da Jaurès a Leon Blum, da Kautsky a Otto Bauer, rimangono immanenti nel Saragat di palazzo Barberini, sono anzi il corpo e la sostanza ideale su cui innestare il programma politico della rinnovata socialdemocrazia italiana.
Mi faccio aiutare, ancora, dalle parole di Arfè:
Il partito che nasce a palazzo Barberini non è nelle intenzioni dei suoi costruttori un partito di socialismo moderato, è un partito classista che si dà come obiettivo ultimo la socializzazione dei mezzi di produzione di scambio, che non esclude nelle dichiarazioni di suoi autorevoli esponenti, anzi auspica, che una volta affermata, organizzata e consolidata l'autonomia dei socialisti, una politica unitaria del movimento operaio possa essere ripresa.
Il marxismo, liberamente interpretato, cultura e non dogma, è la sua dottrina, in esso è il fondamento teorico della sua autonomia ideale e programmatica. E' un dato, anche questo, che mette conto di sottolineare in una Italia dove il marxismo sembra essere diventato una diabolica eresia da estirpare con metodi da Santa Inquisizione.
Marxista è Giuseppe Saragat, continuatore critico e più volte eretico della tradizione riformista.
Dell'anticomunismo, anche nei momenti di più aspra polemica, non fece mai una ideologia. La lotta aperta e intransigente, condotta con le armi della politica, contro il partito comunista si accompagnò all'apprezzamento delle doti di intelligenza e di coraggio dei suoi dirigenti e al riconoscimento del contributo che essi avevano dato alle battaglie della Resistenza e alla costruzione della democrazia repubblicana.
...Al marxismo si rifaceva la vecchia guardia riformista, nella cui tradizione era l'espunzione dal proprio seno di Bonomi e Bissolati e la religiosa fedeltà alla eredità morale e politica di Matteotti, di Turati, di Treves. Essa affluisce compatta nel nuovo partito, organizzata nella corrente che aveva fatto rivivere la turatiana Critica Sociale. Vi fa spicco, vicino a morire, Giuseppe Emanuele Modigliani, apostolo ed eroe del pacifismo fin dal tempo della guerra libica.
...Della sua generazione c'è Rodolfo Mondolfo, il più originale interprete italiano del marxismo nella sua versione socialdemocratica, lo ha confermato con la sua autorità Norberto Bobbio curando e presentando un volume di suoi scritti, autore di profetici saggi sulla rivoluzione russa. Nella loro scia si muove Giuseppe Faravelli, reduce della cospirazione, dall'esilio e dalla galera, che nascondeva dietro il tratto arcigno e burbero qualità umane e intellettuali di enorme ricchezza. Faravelli avanzerà riserve nei confronti del congresso tedesco di Bad Godesberg con una duplice motivazione, una di metodo e una di merito: che non è competenza di un congresso approvare o condannare una dottrina, che il marxismo liberato delle distorsioni e delle deformazioni del leninismo-stalinismo rimaneva ancora strumento insuperato di interpretazione delle tendenze di sviluppo della società.
La giovane generazione è presente con due correnti minoritarie.
La prima, europeista ante litteram, di "Iniziativa socialista", rappresentata da Mario Zagari, Matteo Matteotti, Giuliano Vassalli e Leo Solari, formatasi in Italia nella opposizione al fascismo, raccoltasi nella Resistenza intorno alla grande figura di Eugenio Colorni ...La seconda è quella di ispirazione trotzkista che faceva capo ai giovanissimi Livio Maitan, Rino Formica e Giorgio Ruffolo.
La Resistenza era rappresentata da Corrado Bonfantini ex-comunista e comandante delle brigate Matteotti e da Aldo Aniasi, eroico comandante di una formazione partigiana della Val d'Ossola.
Aderì al nuovo partito Angelica Balabanoff, rivoluzionaria riparata in Italia nell'età giolittiana e militante di rilievo nel partito socialista italiano, collaboratrice di Lenin negli anni ruggenti della rivoluzione, segretaria in Francia del partito massimalista italiano e del Bureau dei partiti rivoluzionari, rimasta massimalista e nemica implacabile dello stalinismo e del suo profeta.
C'è quanto basta per ritenere e sostenere che il partito quale fu concepito e partorito da Saragat non era un partito ideologicamente agnostico e politicamente moderato. Nel nostro partito, egli aveva detto, fatte salve le regole della democrazia interna, hanno pari diritto di cittadinanza tutti i socialisti che credono nell'autonomia del socialismo, dai riformisti ai trotzkisti.”
Socialdemocrazia, dunque, partito ideologico, non agnostico né moderato. Le considerazioni che oggi facciamo sulla scissione di palazzo Barberini risentono fatalmente della consapevolezza degli sviluppi successivi della “operazione politica” allora concepita. Ma un fatto storico va esaminato in relazione al momento in cui si svolge.
L'Italia, nell'inverno del '47, è un cumulo di rovine, la tensione verso la ricostruzione morale e materiale è parossistica, la Costituzione repubblicana è solo una bozza, De Gasperi presiede un governo tripartito (DC, PSIUP, PCI) ancora post-bellico ed è appena stato umiliato e disilluso dalla conferenza di pace di Parigi (cui ha partecipato con Bonomi e con lo stesso Saragat). Il Segretario di Stato americano, Marshall, deve ancora presentare il suo piano di aiuti alle nazioni europee, lo farà ad Harward il 5 giugno del '47 e solo nel settembre di quell'anno Stalin formerà il COMINFORM. La guerra fredda si delinea ma la NATO nascerà nel '49 e il Patto di Varsavia solo nel '55.
Saragat entra nella sala Borromini senza sapere, non può esserne certo, che il fronte popolare uscirà sconfitto dalle urne e, pur essendo sicuro della “tattica liquidatrice” del PCI, forse non immagina quanto grande risulterà l'umiliazione di Nenni e dei massimalisti nelle liste con l'effigie di Garibaldi. Aveva lasciato nel marzo del '46 moglie e figli, e il comodo posto di ambasciatore, a Parigi, spinto in tal senso dalle pressioni dei “giovani turchi” (Iniziativa Socialista) e di Faravelli (Critica Sociale) per risolvere un “caso di coscienza” e affrontare “il problema morale dell'autonomia del socialismo”. Davanti al XXIV Congresso del PSIUP, il 13 aprile, egli pronuncia (tra gli applausi della platea) un discorso che, prima e più di quello di palazzo Barberini, fu il vero manifesto ideologico della socialdemocrazia del dopoguerra, scolpendo, contro le tesi fusioniste, le ragioni teoriche dell'opposizione al comunismo: la necessità di una profonda revisione del marxismo e il rifiuto del leninismo.
Il 2 giugno 1946 l'Italia diventa una Repubblica, il 24 dello stesso mese Saragat viene eletto presidente dell'Assemblea Costituente, incarico che, pur non essendone obbligato né richiesto, lascerà (a Terracini) subito dopo la scissione.
Il nuovo congresso del PSIUP è convocato a Roma dal 9 al 13 gennaio 1947, non tutti gli autonomisti, ridotti attorno al 20% dai contestatissimi congressi provinciali, vi partecipano. La mattina dell'11 Saragat abbandona il congresso e, nel pomeriggio, raggiunge palazzo Barberini, dove già sono i “giovani turchi” e i dirigenti dell'FGS con in testa Leo Solari. (Ri)nasce il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
L'esule, il teorico marxista che aveva speso buona parte della vita a ricucire i rapporti tra le componenti socialiste e tra queste e il partito comunista per affrontare insieme la lotta contro il fascismo, ha 48 anni quando entra a palazzo Barberini per consumare la “sua” scissione. Già sente nell'aria il rombo della denigrazione e della calunnia da sinistra, l'implacabile, sprezzante (falsa) accusa di un'azione finanziata dal governo americano, ideata e diretta dalla destra e dai grandi capitali, ed avverte su di sé un peso maggiore di quello che poi realmente sarà assegnato dalla storia alla sua scelta, vissuta al lume di una ineludibile responsabilità “di coscienza”: “non c'erano che due soluzioni: o rinunciare a battersi per l'idea che ci è cara, oppure fare quello che abbiamo fatto”, cioè un'azione di rottura dell'unità socialista che sarebbe stata accusata di voler colpire l'unità della classe operaia e favorire la reazione. Ma l'amico d'infanzia di Piero Gobetti coltiva la religione del dovere e “il nostro dovere è continuare l'opera di proselitismo, iniziata or sono cinquant'anni dai nostri grandi Maestri” (tra cui Giacomo Matteotti che, come ricordò un accorato Faravelli, aveva detto un giorno: “i socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”).
Con la mentalità di oggi è difficile crederlo ma Saragat, come Nenni del resto, agiva solo per ragioni ideali. Dietro la scissione non c'erano calcoli tattici né ambizione personale. I famosi finanziamenti americani, procurati da Faravelli, non hanno niente di misterioso, tanto che il ricercatore catanese Alessandro De Felice ne ha ricostruito l'intero ammontare servendosi di documenti originali: i sindacati italo-americani di Luigi Antonini e Vanni Montana fecero pervenire (prima alle correnti di Iniziativa Socialista e Critica Sociale, poi al nuovo partito ma per un tempo limitato) contributi di entità non straordinaria anche se vitali per una struttura politica che doveva essere inventata dal nulla.
Saragat non aveva in mente un piccolo partito, tutt'altro. Sperava di trovare un seguito significativo nell'ambito del ceto medio, da cui non desiderava essere schiacciato ma che pensava di sottrarre al richiamo della DC. E soprattutto credeva di poter agire sui rapporti di forza col partito comunista fra gli operai, prospettando loro una diversa, più civile, più umana concezione della lotta di classe. “La storia della scissione di palazzo Barberini - dice Arfè - è la storia di un tentativo, audace, storicamente fallito e tornato politicamente attuale, di comporre in dialettica unità, nel comune segno della indipendenza dal gioco delle politiche di potenza, le forze del movimento operaio socialista, per farne, in un quadro di solidarietà europea, la forza dirigente del processo di ricostruzione di un paese uscito dalla più grande catastrofe della sua storia.”
La storia successiva non terrà fede alle premesse por motivi di rilievo storico e per ragioni politiche anche di basso profilo. Il PSLI, poi PSDI non sfonderà mai alle elezioni politiche, buona parte della classe dirigente che aveva seguito la scissione si perderà per strada a causa delle gravi divisioni sulla politica estera tra i teorici del terzaforzismo e i fautori dell'Alleanza Atlantica ed anche della diversa concezione dei rapporti con la piccola borghesia. Saragat diventerà (pur senza gestire mai grande potere) una delle maggiori personalità di governo del centrismo (epoca che gli storici cominciano a rivalutare, poiché coincise con la ricostruzione dell'Italia, con la sua provvida scelta occidentale, con il suo miracolo economico) lasciando l'originaria ispirazione marxista quasi come un “porto sepolto” della sua anima ombrosa e solitaria ma sostanzialmente estranea in corpore vili al PSDI. Egli affermerà sempre di più, fino alla presidenza della Repubblica, la sua natura di uomo di stato senza mai tenere in conto gli interessi del partito che aveva fatto nascere. Le sue vere preoccupazioni furono quelle di riannodare i fili dell'unità socialista (che rinascerà e morirà durante il suo soggiorno al Quirinale, lasciando vieppiù impoverito e defedato il gruppo dirigente socialdemocratico) e preparare (con successo) la strada al centro-sinistra.
Il resto è la cronaca della nostra generazione. Saragat non fu solo né incontrastato nella costruzione del nuovo partito. Ma egli prevalse (malgrado un gran brutto carattere) per la sua patente superiorità intellettuale e si può ben dire che il ricordo di palazzo Barberini è tutto imperniato sul pensiero e sulla figura dello statista torinese. E se di questo pensiero, praticamente enciclopedico per estensione e per dottrina, ho voluto qui cogliere solo l'aspetto (che potrebbe sembrare archeologia politica) dell'adesione critica al marxismo è per farne spunto di riflessione sul presente.
L'uomo Saragat parlava sempre come un maestro dalla cattedra. Cosa resta della sua lezione?
Chi scrive questa nota conobbe il vecchio leader, ormai ottantenne, dopo la fine del suo mandato al Quirinale. Vidi sempre, in pubblico, nelle poche occasioni in cui venne a presiedere il Comitato Centrale, un nume svagato e scostante. Andai qualche volta a trovarlo nella sua casa di via della Camilluccia, con altri giovani o accompagnando alcuni dei maggiori dirigenti del partito a quell'epoca. E vidi un padre stanco e disilluso sulle virtù dei suoi figli, cui parlava ancora come un maestro agli scolari, non di politica ma di filosofia, di scienza, di letteratura. Si esprimeva esattamente così come avevo letto sui libri, ogni frase era una citazione fatta a memoria, spesso in lingua originale. A noi giovani diceva: “perché continuano a chiedermi consiglio sulle scelte da fare? Un vero dirigente non cerca mai la strada della convenienza, deve sentire dentro di sé qual'è il dovere di un socialista”.
Il tempo è passato senza costrutto, un nuovo millennio è in corso. Qual'è il dovere dei socialisti?
In Italia le caratteristiche fondamentali della psicologia politica ondeggiano fra l'assenza del senso statale e l'assenza del senso di libertà”. Sembra una foto scattata oggi eppure sono parole pronunciate da Saragat nel 1925.
L'impegno profuso per limitare gli spazi di rappresentatività, quindi di agibilità democratica, non ha portato alle forze a vocazione egemone i benefici sperati sul piano dell'efficienza e della coesione di governi, maggioranze e schieramenti d'opposizione Ai partiti-contenitore della cosiddetta seconda Repubblica manca un “pensiero”, cioè un organico ordine di principi, un'idea-forza alla quale riferire le politiche del quotidiano; pertanto essi non sono in grado di concepire e guidare un processo profondo e coerente di trasformazione anzi seguono, si mettono a rimorchio di umori e interessi cangianti di parti della pubblica opinione e di pezzi dell'economia e della finanza, di cui assecondano le rivalità nel contendersi il monopolio dei mercati oggi più interessanti: quelli del denaro e delle comunicazioni. Non si tratta della “morte delle ideologie” ma della fine della politica. E si scrive fine della politica ma si legge fine della sinistra.
Il processo di trasformazione del PCI, volutamente, non è approdato al socialismo democratico, a differenza di quanto avvenuto persino ai partiti comunisti dell'ex cortina di ferro. Una scelta non dettata da bisogno di modernità ma legata all'antica vocazione al compromesso consociativo con gli “'interfaccia” cattolici della prima repubblica, facendo (almeno finora) della nuova “cosa” PD (Partito Democratico, all'americana) oggetto di particolare interesse da parte di cittadini cui preme di più “conservare” quanto loro appartiene piuttosto che innovare la società nonché da parte dei gruppi socio/economici più sensibili all'assistenzialismo e al parassitismo.
Ora, non può concepirsi una nazione moderna in Europa in cui non si trovi almeno un settore della sinistra politica che rifletta la cultura, la tradizione, i contenuti, la rappresentatività sociale del socialismo di formazione riformista e democratica. A nessuno fuori d'Italia verrebbe in mente di dire che la socialdemocrazia è morta, pur se attraversa un periodo di difficoltà sul piano elettorale.
La socialdemocrazia, come tutte le politiche del resto, va sempre aggiornata agli effettivi sviluppi dell'economia ma rappresenta una parte necessaria del pensiero politico democratico, prefigurando come suo sbocco ideale una determinazione socialista della democrazia (non viceversa, cioè una determinazione democratica del socialismo). La sua crisi in Europa e la sua totale assenza in Italia sono parte essenziale del dramma che impedisce la nascita di una federazione politica europea e ostacola lo sviluppo della democrazia italiana.
Il nostro dovere è fare rilevare contraddizioni tanto gravi, così palesi, profonde al punto da compromettere il futuro delle giovani generazioni italiane. E mi soffermo in prevalenza sulle questioni che riguardano una delle parti perché l'avvenimento di palazzo Barberini può essere inserito soltanto nel terreno storico, nel contesto sociopolitico, nella realtà culturale della sinistra.
Ora come allora, sorge ai di “saragattiani” un problema di verità e di coscienza.
Saragattiani sì, nel 2010, donne e uomini che rivendicano il diritto all'idealismo come presupposto necessario dell'azione politica, che sanno che senza equità non c'è libertà e senza libertà non c'è giustizia; che credono ancora nella “rivoluzione democratica” come affermazione della coscienza degli interessi comuni, di “un'anima collettiva” dei “proletari” da far pesare attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa per rimuovere, pezzo a pezzo, le cause dell'ingiustizia.
Chi sono adesso i proletari? Quelli di una volta, operai, braccianti, contadini, piccoli proprietari,commercianti, impiegati, artigiani, professionisti, intellettuali come i nuovi poveri del giorno d'oggi, disoccupati, precari, immigrati e gli ultimi, quanti non hanno nulla, e ce ne sono tanti, di ogni colore.

Frugando alla rinfusa nel nostro passato, nella complessità, che a volte diventa contraddittorietà, della storia, ognuno può trovare appigli alle scelte più disparate. Ma assumere, nell'attuale contesto politico italiano, palazzo Barberini come fonte della propria identità politica non offre alcun vantaggio pratico e, in particolare, non consente avalli teorici di sorta per opzioni di schieramento; al contrario, è una scelta che ci rende antagonisti del sistema nel suo complesso.
Non sono pochi i cittadini che si rendono conto dell'illusorietà, della grande menzogna del sistema bipolare all'italiana, che ne colgono, a pelle, il nesso tra la volgare ferocia delle forme e il vuoto di valori della sostanza.
Trovare ruoli e spazi di agibilità politica non è semplice, è il problema che abbiamo davanti. Eppure da un punto bisogna ripartire per creare un gruppo politico consistente e visibile che al vuoto riesca a contrapporre il pieno di un programma rigoroso legato ad una forte idealità.
La sensazione, più che opinione, di chi scrive è che, unendosi, coloro i quali in ragione della loro mentalità e formazione si sentono estranei al sistema oggi dominante, possano trovare campo fertile per una nuova iniziativa politica sul versante della sinistra politica italiana ed europea, valorizzando in questo processo anche le superstiti, piccole, sparse formazioni socialiste e laiche. Per un'offensiva di verità (la “nostra” verità, s'intende, quella delle nostre idee dichiarate con chiarezza, con fermezza, con coraggio e con lealtà), da muovere con le forze e gli strumenti che ci restano. Sapendo che l'inverno sarà freddo e la marcia lunga e faticosa.
Antonello Longo